10 Luglio 2021
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10 Luglio 2021

Leon Faun C’era una volta. Fantasy o non fantasy, questo è un rap che “incanta”

Il Prof di latino analizza i testi dell'album di esordio di Leon Faun, l'artista che sembra destinato a dominare la scena rap italiana

Leon Faun C'era una volta
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C’ERA UNA VOLTA: LE TRACCE

Nelle tredici canzoni ci sono o frammenti di vita o scene che sintetizzano un’emozione. Il Fauno, senza eccedere nei dettagli, si ritaglia uno spazio di confessione.

Vuole cantare sé stesso, le sue inquiete follie. E vuole affermare la sua libertà.

“In testa ho un puzzle, vorrei staccare un pezzo
Amore in occhi da pazzo, fra’, tutto è più chiaro ad un tratto
Ehi, scusami un momento, ho preso pausa da Mairon
Brotha, scusami davvero ma c’ho il chakra distratto (…)

Non importa se tu sei pieno di ma

Be’, tu ricorda che la follia mia non ha età
La solitudine farà di me una star…” – La follia non ha età

Rivendica il diritto di essere instabile, contraddirsi, cambiare idea. Il diritto di sperimentare.

“Mentre canticchio cose perso tra i miei pensieri
Mi fanno ancora ‘Oh Cacchio’ ma cambiano i pareri
Mo’ vedo un nuovo inizio in mezzo a quei bei sentieri (…)
Mi sono fatto in quattro per cambiare gli schemi
Quando ho puntato tutto su ciò che non vedevi”. – Alla luna

Rifiuta le gabbie, le etichette. E canta alla luna, simbolo di un’ispirazione mutevole, che ha il potere di governare la sua penna e di usarlo:

“E parlo alla Luna
Lei mi fa le fusa
Canto alla Luna, ma poi mi rifiuta
Scrivo una song con una penna, con una piuma
Saltiamo mura con una fune, pronti alla fuga
Un bacio alla Luna
Lei mi saluta, ma sembra che mi usa”.
(Alla luna)

Ma soprattutto Leon Faun va alle origini delle “pare” che gli hanno impedito il volo, scava nei suoi vuoti, scende nei suoi ricordi bui”.

“Cos’è che hai?
Hai dei ricordi bui?
Cos’è che fai se sei nei tempi in cui
Tempi in cui hai dei ricordi bui
Tu cosa fai con i ricordi altrui?” – Ricordi bui

“Il ragazzino che parla di nani, fate, draghi” vuole ora raccontare anche la sua oscurità, vuole avere la possibilità di dire come è cambiato. Ha vissuto l’abbandono, o meglio la perdita, e allude senza mai retorica alla scomparsa del padre avvenuta nel 2019, l’uomo che è stato anche, come dichiarato in molte interviste, all’origine della sua passione artistica.

“Una volta ho perso un uomo che mi ha mostrato la strada”Come?

“Vorrei restare a fluttuare nell’aria come quando avevo lui
Ma sanno che mo’ non riscenderò mai, la ragione in fondo per cui…” Freddy Vibes

Parla talvolta di amore, o meglio di incontri. E nelle barre esprime un’inquietudine che non è solo fisica, com’è di moda nel rap, ma è la proiezione di un tormento o di un bisogno di verità.

“Non me ne volere ma avevo raccolto dei fiori
Rubati a mamma Gaia per portarti dei doni
C’era un chupacabra celato nei miei sogni
Mamma che figata sento le vibrazioni
Solo entro ‘sta serata droppo dieci canzoni
Cazzo me ne
Che tanto vivo due volte, la prima per dialogare, nell’altra apro le porte”. – Come?

“Come hai fatto a non vederlo, mi chiedo io?
Un motivo in più per essere in conflitto con Dio
Se mi guardi bene negli occhi, vedi l’oblio
Ho sempre odiato l’amore a meno che non sia il mio“. – Poi Poi Poi

E questo tormento che attraversa l’album non è mai urlato, come ci si aspetterebbe da un rapper, quanto indagato, scavato e trasformato in risorsa.

Tre canzoni in proposito meritano una speciale attenzione, le mie preferite dell’album. In esse c’è la dichiarazione del bisogno di andare a fondo, nella vita e nella musica, per misurarsi con i segreti dell’anima, con le ombre della mente.

C’ERA UNA VOLTA: LE MIE TRE CANZONI PREFERITE

Prima tra tutte, C’era una volta, il brano di apertura. Un bisogno di libertà che suona quasi come una richiesta: “Voglio volare quando mi pare / Queste mie pare mi hanno messo un collare che ho tagliato da…”.

In questo bisogno di libertà è forte la consapevolezza di un passato che ha ferito e che adesso va raccontato:

“Non mi chiamavano fauno (forse)
Ero ancora più pazzo
Quando mi hanno tolto tutto
Quello scambio è stato un furto
Vedo buio in tutto il puzzle”.

Un passato che va cantato per emanciparsi. Mentre i suoi “brother sono silent / Sono alla ricerca di pace / Aspettano che tutto tace / Non riescono più a camminare / Tra le rovine di un sangue”, il Fauno vuole saper tornare indietro, sondare il buio del puzzle.

“Vuole cadere senza morire, senza sentire”. Tutto l’album è un’immersione nel buio del puzzle.

Sarà probabilmente una percezione mia, eppure sembra che l’autore canti, insieme al dolore, anche la capacità di analizzarlo e di accoglierlo. Mi pare vada letta così questa frase, la più bella della canzone e dell’album:

“La vita di un fiore può fare un rumore terso
Quando piove che, boh, mi rilassa”

Un “rumore terso”, straordinaria sinestesia (accostamento di due sfere sensoriali diverse, quella acustica e quella visiva)! Come se ci fosse persino una dolcezza nel guardare il dolore, come se la pioggia non impedisse al fiore di germogliare, anzi producesse un rumore degno di essere ascoltato…

Camelot sembra confermare la mia interpretazione di C’era una volta. Anche qui leggo una confidenza con i conflitti della propria anima e una reazione eroica.

La fortezza del leggendario Artù rappresenta la psiche, dove il poeta combatte una guerra interiore da cui esce con armi rinvigorite. Dentro Camelot c’è un’onda che ritorna e porta con sé tutto, anche i ricordi necessari.

“Oddio, quell’onda che mi porta
Dei ricordi come dono
Mi ricorda dove sono
E tieni i miei fantasmi a bada”.

Così il Fauno invoca la noia, perché torni viva e porti con sé quest’onda, questo movimento necessario dell’anima. La noia sembra addirittura una risorsa, un rifugio interiore in cui si prepara il riscatto, quando fuori si tocca il fondo.

“Oddio, quell’arma mi salva
Quando qua si bacia il suolo
Quando nuoto nel Mar Vuoto
E tornerò con la mia armata
Giuro ritornerò da Camelot
Come vittima di un angelo
Se mi illumino, mi inalbero
Così duplico il mio battito
Io tornerò da Camelot
Più luci nel mio animo
Come un altro bimbo magico
Come un altro psicopatico”

La noia, la follia, la visione della propria ombra sembrano quasi un’occasione.

Infine c’è il piccolo gioiello: Occhi lucidi, brano ancora più intenso nella versione orchestrale prodotta da Eiemgei. Accompagnato dal movimento retro della fisarmonica, il Fauno canta, con l’arguzia di un Caparezza e la ruvidità di un Capossela, il sentimento più antico del mondo, la nostalgia.

Così quel momento di amore immortalato dal testo risuona sia del dolore della fine, perché è destinato a svanire, sia della dolcezza dell’illusione.

“Mi vengono quei brividi se mi chiami folle
Bimba, ti prego illudimi, figli del forse”.

SCRUTINIO FINALE

È fatto di frammenti di vita il “puzzle buio” di C’era una volta, un puzzle che manca di pezzi e si compiace persino di queste assenze.

È il mistero di cui vi parlavo prima, il non detto. Non ci muoviamo dentro una storia, ma in una rete. E tutto ci sembra così reale, perché è anche un po’ nostro.

Questo aggancio alla vita, questa voglia di raccontarsi che è così forte nel disco di Leon Faun, ha avvicinato anche quelle immagini fantasy che prima sembravano aliene o surreali: le ha spostate da quel mondo a questo, da Mairon a Gaia, e le ha rese proiezioni di una verità concreta che chi ascolta può rivivere sulla sua pelle.

 

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