25 Luglio 2020
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25 Luglio 2020

La realtà delle playlist sta morendo o si sta consolidando?

Matteo Mori ci parla di un possibile calo di interesse da parte dell'utenza nei confronti delle playlist.

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Le playlist sembrano diventate essenziali per la carriera di un artista. E forse lo sono. Ma dai dati sembra che questo microcosmo stia perdendo interesse da parte dell’utenza principale.

L’interesse nei confronti delle playlist sta perdendo terreno?
Il sistema delle playlist è sicuramente il protagonista dell’era dello streaming: da artisti che le usano per riuscire a ritagliarsi una fetta di mercato, con un aumento delle entrate e di affermazione artistica, ai fan che seguono le playlist create dai propri artisti preferiti, oppure c’è una fetta di fruitori passivi che usano quelle già fatte come sottofondo per le loro attività tipo cucinare, riordinare casa, dormire.

Due aspetti che sono fondamentali per il dominio delle playlist: il formato digitale ed estetico che vi è alla base (un insieme di tracce che possono essere riprodotte sui servizi streaming, aggiornate regolarmente grazie ad algoritmi o per mano dei curatori) e l’interesse degli artisti, etichette e fan nell’usarle come modo per promuovere la carriera e scoprire nuova musica.

Ci sono ancora queste due fattori? Non propriamente.
Spesso ci sono aspettative eccessive relative al coinvolgimento dell’ascoltatore.

Spotify categorizza i propri prodotti supportati dalle pubblicità come diretti concorrenti delle radio. Secondo uno studio del 2018 della Comunità Europea, Today’s Top Hits genera incassi vicini a $163,000 per traccia singola. Playlist più orientate verso la musica latina, come Baila Reggaeton o ¡Viva Latino! riuscivano a creare entrate tra i $230,000 e i $424,000.

Ma ci sono alcune playlist con diverse migliaia di utenti unici a seguirle che non rendono allo stesso modo. La playlist EDM mint, che, al momento, conta 5.553.000 di followers, non rende quanto altre playlist con un quarto del suo seguito.

“Il problema delle playlist troppo grandi di Spotify è il fatto che la gente non ha un interesse diretto, come potrebbe avvenire con quelle private — racconta Nicolò Picchioni, Audio content manager & Promotion per Artist First — Nelle playlist con tanto seguito si viene indirizzati quasi immediatamente, grazie all’utilizzo di parole chiave, ma la gente tende a seguirle sul momento, per poi dimenticarle in seguito. Da questo punto di vista, sono più utili le playlist create dagli utenti unici, che potrebbero essere quelle create dai cantanti, o da supposti influencer”. Tuttavia esistono casi di playlist Spotify che vanno oltre le aspettative, ad esempio Today’s Top Hits o RapCaviar; anche se sono casi rari che si confermano come eccezioni.

A questo punto potremmo considerare le playlist come delle nuove radio, forse perché entrambe sono sistemi ormai abusati allo stesso modo.

CONSOLIDAMENTO O PERDITA DI INTERESSE?

Facendo una breve ricerca su Google Trends sulla parola playlist dal 2004 ad oggi, si nota come le ricerche medie della parola playlist a livello globale siano diminuite tra il 25% e il 50% dal proprio picco (corrispondente ai tempi d’oro di MySpace). Caso isolato è un aumento della ricerca tra questo aprile e maggio, probabilmente dovuto al lockdown e ad un aumento del consumo dei media. Si evidenzia però un calo dopo nemmeno due mesi.

Certo, probabilmente non si cerca più cosa sia una playlist o non si cercano direttamente su Google. Tuttavia questo potrebbe dimostrare come ormai sia un concetto vecchio, che difficilmente può portare ad un aumento di interesse da parte dell’utenza.

Per quanto riguarda gli artisti, si è portata avanti per anni una narrazione di come le playlist Spotify abbiano dato più visibilità e, alcune volte, lanciato degli artisti che noi tutti oggi conosciamo: l’azienda stessa ha citato Sean Parker e la sua playlist per aver lanciato la star neozelandese Lorde.
La realtà? I fan di Lorde stavano seguendo i suoi movimenti su Tumblr e SoundCloud molto prima che lei venisse inserite nella playlist di Parker.

Sfortunatamente per Spotify, molte altre aziende concorrenti hanno seguito la sua stessa narrativa ben congegnata sul “potere delle playlist”. Pandora e SoundCloud hanno entrambi presentato sofisticate playlist personali in stile Discover Weekly. YouTube Music ha praticamente preso in prestito l’interfaccia mobile di Spotify.

L’accesso alla musica gratuitamente offerto da Spotify non lo rende così diverso dai siti di musica illegale nati nei primi anni 2000. Proprio Spotify, nascondendosi dietro alla narrazione del potere delle sue playlist, ha evitato che l’azienda si livellasse alla sua concorrenza.

L’operazione di Spotify è quella di passare come artist-friendly, ponendosi come una realtà indispensabile per la promozione di un artista (che in alcuni casi è vero).
Ma le playlist di Spotify devono servire Spotify stesso prima di tutto, e, secondariamente gli artisti che presentano. Le playlist più gettonate e con maggior seguito non sono così artist-friendly, ma vedono gli artisti come prodotti usa e getta. Spotify deve mantenere i suoi utenti coinvolti, con playlist studiate e curate.

Che si intende con curate? Nelle playlist legate al genere musicale, il contenuto deve essere aggiornato regolarmente; per quelle più orientate all’umore, il contenuto può anche non cambiare con frequenza, purché continui a svolgere la sua funzione per l’utente, indipendentemente dagli artisti al suo interno. In entrambi i casi, l’artista è disponibile al servizio del prodotto.

Questo periodo può essere caratterizzato da un crescente atteggiamento di disillusione tra artisti emergenti ed etichette nei confronti delle playlist. Esse, infatti, non si dimostrano così significative e spesso non sono in linea con l’hype promesso.

Può essere vero che alcune playlist possono portare a un picco significativo di ascolti (e, si spera, di entrate) per i nuovi artisti, che potrebbero risultare in un aumento del proprio pubblico (anche grazie all’algoritmo che potrebbe consigliarli a nuovi utenti).

Ma c’è quasi sempre una relazione inversa tra crescita dell’ascoltatore e il suo coinvolgimento, e le playlist spesso possono diventare dannose piuttosto che utili per coltivare i fan se non si sta attenti. “Non ci si costruisce un pubblico con un brano su New Music Friday. Sicuramente le playlist sono ancora una realtà importante, ma non l’unica; ci sono tanti aspetti da curare al di fuori anche del digitale, che fermarsi alle playlist sporadiche non è possibile.” come afferma Picchioni.

QUALE FUTURO C’E’ OLTRE ALLE PLAYLIST?

Quindi, se c’è un interesse calante e una forte disillusione con l’attuale sistema di playlist, cosa prospera in un mondo streaming simile?

Un fenomeno che ho visto guadagnare più slancio negli ultimi anni è l’integrazione più profonda con altri formati e settori di intrattenimento. Consideriamo come Live Nation sia sbocciata tranquillamente in una società di produzione cinematografica ed è stata candidata all’Oscar per A Star Is Born e altri documentari; o come Beyoncé può avere oltre 41.800.000 ascoltatori mensili su Spotify, ma l’unico modo per capire veramente la visione dietro Lemonade è andare su YouTube e guardare il suo album visivo; o come Björk abbiamo collaborato con degli sviluppatori per dare vita ad un’applicazione promozionale per il suo album Biophilia.

C’è un crescente interesse nell’industria musicale attorno alla ridefinizione e alla liberazione della musica, oltre a una playlist o un album, e sfociando in settori come la moda, il cinema e videogiochi. Sicuramente realtà che riescono ad estendere la capacità di divulgazione di un artista, piuttosto che abbandonando il progetto a un metodo unico. Finché i servizi di streaming forniranno poca infrastruttura per supportare un tipo di costruzione indipendente e coerente per un artista (o finché gli utenti di streaming non sono alla ricerca di quel tipo di contenuto), l’influenza delle playlist tradizionali su tali piattaforme continueranno a diminuire.

“Lo streaming è il futuro della musica. La playlist dovrà essere in grado di perfezionarsi su misura dell’utente migliorando l’algoritmo o il team editoriale dietro”. Man mano che l’industria musicale diventerà più parassitaria nei confronti di nuovi formati, le playlist diventeranno “la nuova radio” perché la playlist tradizionale, come sappiamo, dovrà sopravvivere allo streaming, non viceversa.​

 

(S)cambio generazionale è la rubrica in cui il 19enne Matteo Mori racconta cosa significhi essere nati in un mondo dove la musica era già agli stadi finali nel suo formato fisico e più vicina alla digitalizzazione.