12 Agosto 2014
di Direttore Editoriale
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12 Agosto 2014

PAOLO GIORDANO si interroga:”Ma gli album hanno ancora senso?”

Il giornalista e critico Paolo Giordano si interroga se l'era dell'album é tramontata ed é tornata l'epoca dei singoli.. le nostre riflessioni al riguardo.

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Paolo Giordano, il giornalista musicale de Il Giornale, nonché Direttore responsabile di Area Sanremo, ha pubblicato qualche giorno fa nel suo Blog un interessante articolo intitolato “Ma gli album hanno ancora senso?“, in cui si interroga se il cd al giorno d’oggi ha ancora ragione di esistere analizzando l’attesa (ormai ai minimi storici) che questo supporto musicale genera nel pubblico.

Forse, come ha constatato il giornalista, siamo realmente entrati in maniera (quasi) definitiva nell’epoca del singolo digitale. Ormai le canzoni hanno una vita breve, molto breve, e si consumano brani di artisti molto diversi tra loro al punto che sembra proprio essere venuta a mancare l’affezione nei confronti del singolo artista (fanno eccezione, ma non senza difficoltà, i nomi ormai consolidati, gli artisti vincitori o finalisti di alcuni Talent show e gli esponenti della scena rap), la voglia di ascoltare un intero album composto da brani di uno stesso cantante.

Questo nuovo modo di consumare musica però va sicuramente a danneggiare irrimediabilmente le carriere e i progetti di quegli artisti (soprattutto emergenti) che non hanno un approccio alla musica da singolo e via ma che, al contrario, possono esprimere appieno il loro potenziale solo con un’intera opera; una sequenza di canzoni che accostate tra loro mettono in luce la coerenza, in alcuni casi, e la duttilità interpretativa o compositiva, in altri.

La strategia del singolo tormentone o radiofonico può rivelarsi in alcuni casi il più grande boomerang che l’artista stesso può lanciare contro se stesso pronto a tornargli sul viso, mettendolo k.o. anche definitivamente.

Sì, perché se è vero che in alcuni casi il singolo riesce ad anticipare un disco coerente al brano lanciato, e quindi a creare un seguito al suo percorso musicale, ma è altrettanto vero che nella maggior parte dei casi può rendere il percorso successivo un ostacolo molto più arduo da superare rispetto al debutto.

Se guardiamo nel passato possiamo trovare alcuni esempi noti: i Velvet, che spopolarono tutta un estate con Boyband, canzone per nulla rappresentativa del loro album e del loro successivo approccio alla musica, hanno pagato per anni questa scelta (probabilmente non loro). Uno dei casi più noti è quello di Valeria Rossi, che ha dato vita ad un singolo di quelli che non ti escono più dalla testa, Tre parole… il problema è che quelle tre semplici parole (sole, cuore e amore) hanno condizionato tutta la sua carriera facendo passare in secondo piano le sue doti compositive e, totalmente inosservati, i lavori successivi. E l’elenco potrebbe continuare con molti altri nomi italiani e non solo (vedi Las Ketchup, Alizee, Eamon…)

In tutta questa lunga riflessione andrebbero aggiunti il peso che la televisione, i Talent, ma soprattutto Internet e lo streaming hanno avuto in questo cambiamento radicale nel modo di ascoltare la musica.

Noi di All Music Italia abbiamo deciso di provare ad andare a fondo sulla questione e, nei prossimi giorni, lanceremo un sondaggio con un po’ di domande che sarà online tutto il mese. Perché siamo curiosi di saperne di più sul vostro pensiero al riguardo e sul vostro modo di fruire della musica.

Nel frattempo riportiamo per intero la riflessione di Paolo Giordano e vi invitiamo a leggere nella sua interezza perché zeppa di spunti significativi.

Paolo Giordano
Sta a vedere che si torna agli anni Sessanta. Ogni artista pubblicava solo 45 giri. E poi, ma solo poi, li raccoglieva in un 33 giri, magari aggiungendo qualche brano inedito. Anche i Beatles e i Rolling Stones hanno iniziato così.

In Italia poi: era la tendenza dominante finché dal mondo anglosassone è arrivato lo schiaffo del rock. Non quello di Elvis o del rock’n’roll comunque legato al ritornello e alla costruzione easy di una canzone. Ma quello dei Doors o di altre band che hanno iniziato a costruire la propria identità su di un complesso di canzoni legate da un filo conduttore, che fosse concettuale o anche soltanto sonoro. Gli esempi li conosciamo tutti ed è inutile elencarli. Il disco è diventato un concetto. Fatto di testi, di musica, di copertina, di illustrazioni. E si compravano gli album per entrare ogni volta in un mondo diverso, dal quale spesso si faticava a uscire.

Per capirci, The Wall dei Pink Floyd o Innervisions di Stevie Wonder o Una giornata uggiosa di Lucio Battisti ti rendevano schiavo, drogato, passivo. Trascorrevi giorni, settimane ad ascoltare solo quello. Alla fine conoscevi tutto ma proprio tutto, dal nome del produttore a quello dei coristi. Ogni parola, ogni ritornello. Ora pare tutt’altro. Sia che si digiti su YouTube o che si ascolti in radio, ogni canzone è “soltanto” musica, spesso soltanto melodia. Ed è sempre più probabile che di una canzone non si conosca neppure il titolo, tantomeno il nome di chi la canta. Le canzoni insomma sono diventate un accessorio. Per carità, è un accessorio centrale nella nostra vita perché mai, nella storia dell’umanità, l’uomo ha ascoltato così tanta musica e così liberamente. Ma manca tutto il resto.

Forse aveva ragione Gino Paoli che, più di quindici anni fa, in un camerino dello Sporting di Montecarlo mi disse che il nostro futuro sarebbe stato il passato. I singoli invece degli album. E pare sia accaduto proprio così. A parte alcune eccezioni (ad esempio Kanye West o Jay Z o vecchi colossi del rock), per quasi tutti la costruzione di un intero disco e il tempo necessario per farlo sembrano ormai sforzi inconciliabili con i costi e con le esigenze del mercato. E spesso gli incassi che derivano dalle copie vendute non servono manco a coprire le spese per la realizzazione della copertina. Meglio pubblicare una canzone ogni tre, quattro, sei mesi e vedere l’effetto che fa.

In Italia Vasco è stato forse il primo ad adeguarsi giocoforza a questo nuovo trend. E agli esordienti quasi tutti sconsigliano di pubblicare una intera collezione di canzoni. E occhio: non è così importante che colossi come Rolling Stones o Aerosmith pubblichino un disco (per di più insignificante) a ogni morte di papa. Conta che il pubblico senta sempre meno l’esigenza diffusa di acquistare e ascoltare una sequenza di canzoni tutte in una volta. Non è un caso che gli U2 siano impallati da molti anni sul nuovo disco, che tuttora non si sa quando e se uscirà: conoscono bene la situazione.

Un conto è il “fan scatenato”, peraltro percentualmente sempre meno rilevante. Un altro sono i grandi numeri e la generica propensione a trascorrere almeno mezzora ascoltando canzoni legate da un fil rouge. E’ proprio cambiato lo spirito del tempo. Siamo alle canzoni tweet, 140 battute al massimo, per rimanere in tema. Una volta, due o tre decenni fa, le etichette discografiche investivano sul medio lungo termine di ciascun progetto. Ed è stato così che, tanto per fare qualche nome, Lucio Dalla o Franco Battiato sono riusciti a resistere ai clamorosi insuccessi di vendite dei primi dischi. Adesso no.

Adesso non sono soltanto finiti i soldi. Ma è proprio cambiata la modalità di fruizione della musica, oltre allo spirito che la genera, sempre meno infuocato da slanci ideologici o passionali. Adesso siamo one shot. Se va bene il primo singolo forse (forse!) si potrà incidere anche il secondo e alla fine un disco. Quindi tutto si sta adeguando a questa tendenza. E’ bello?? E’ brutto?? Per chi ama la musica leggera e ha più di trent’anni è peggio che brutto: è disastroso, è realmente un cambio epocale che rende orfani. Per chi è più giovane è quasi indolore. Ma per tutti è un segnale importante. Anche la musica leggera popolare sente (e soffre) il bisogno di essere concisa e concettosa. Talvolta ci riesce senza fatica. Ma sempre più spesso la fatica tocca a chi la ascolta. E gli effetti si vedono sulle vendite e sulla generica rilevanza che la musica ha sul costume e sulle abitudini, sempre più scarsa. Non è un bel segnale, proprio no.