12 Giugno 2020
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12 Giugno 2020

Tia Airoldi intervista: “Scrivo per andare a colpire le corde di chi ascolta”

Il nuovo singolo dell'artista, isn't it fine è esploso come colonna sonora di un noto spot

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Tia Airoldi cantautore, docente, autore e interprete suona in Italia e all’estero in apertura di numerosi artisti nazionali e internazionali come Spandau Ballet, Josh T.Pearson, Ben Ottewell, Matt Elliott, Juan Mordecai, Statuto, Punkreas.

Ha suonato all’estero in Canada, Germania, Svizzera, Polonia, Belgio e in Inghilterra e in alcune venues straordinarie come il Brussels Summer Festival e il Reeperbahn Festival di Amburgo, oltre al festival MI AMI di Milano (con The Please, 2012).

Tia Airoldi nel corso degli ultimi anni ha pubblicato diversi singoli fino ad arrivare alla collaborazione con il compositore, autore e produttore Fabrizio Campanelli (con già all’attivo due candidature ai David di Donatello per la miglior canzone originale) da cui nasce Isn’t It Fine.

La canzone pubblicata venerdì 29 maggio per l’etichetta Candle Studio Srl anticipa il primo progetto discografico in italiano dell’artista.

Per l’occasione abbiamo incontrato Tia Airoldi per farci raccontare alcune curiosità e dirci cosa dobbiamo aspettarci dal futuro.

INTERVISTA TIA AIROLDi

Cosa ti porti dietro da questa quarantena? Ha influito sulla composizione della tua musica?
Stiamo riemergendo ora da una condizione drammatica e inedita per tutti; la pandemia ha investito il mondo intero cambiando anche radicalmente le vite delle persone.

Mentre gli stati attuavano misure diverse per gestire questa emergenza, ciascuno si è trovato, in misura diversa, a confrontarsi con sé stesso…
Ho la fortuna di vivere con la persona che amo e questa è sicuramente la cosa più importante: la cura, le attenzioni e il volersi bene sono il benessere.

Personalmente ho cercato di mantenere uno sguardo fiducioso, utilizzando il tempo delle giornate (anche per svariate ore) per sintonizzarmi con me stesso attraverso la musica: ho scritto molto, non tutto con una finalità ben precisa ma più che altro ascoltando i diversi stati d’animo che mi hanno attraversato.

Ho ascoltato tanto, girovagando per mondi sonori sconosciuti.
 Ho meditato. Ho collaborato con amici di breve e lunga data avendo a disposizione quel tempo che spesso nella routine frenetica viene (o veniva?) divorato.

Come docente di musica ho portato avanti al mio meglio (spero) la didattica a distanza, preparando lezioni e attività e facendo ricerca.

Nel frattempo in TV riecheggiava Isn’t It Fine e molte persone si sono interessate alla mia musica; molte mi hanno scritto coinvolgendomi nel loro sentire e io ho cercato di rispondere un po’ a tutti. 
È stata una palestra di relazioni.

“Isn’t It Fine” è il tuo nuovo singolo, com’è nato e cosa ti ha portato a scriverlo?

Il brano è stato scritto con Fabrizio Campanelli, compositore di cui ammiro la sensibilità musicale.
Quando ci siamo conosciuti, mi aveva rapito il suo lavoro per il brano Lovely on my hand che invito i lettori a riascoltare per emozionarsi un po’.

I primi passi di Isn’t It Fine risalgono a qualche tempo fa: nella casa base di Fabrizio, il Candle Studio di Milano, stavamo lavorando alla struttura di un pezzo di ispirazione folk.

L’atmosfera luminosa del brano era già presente fin dalle prime battute ma solo recentemente la canzone ha assunto la sua forma definitiva con l’aggiunta del bridge e dei preziosi colori delle chitarre di Enrico Meloni.

La pubblicità di immobiliare.it attraverso il medium televisivo ha contribuito certamente a diffondere la canzone e a farla conoscere a un gran numero di ascoltatori.

La canzone anticipa il tuo primo progetto discografico in italiano, cosa dobbiamo aspettarci a livello di scrittura?

Sono elettrizzato da questa prima esperienza con delle canzoni composte nella mia lingua madre.
 Non sempre in passato ho trovato un feeling immediato nello scrivere in italiano ma ciò che ora mi entusiasma è trovare un’ identità musicale in questo senso.

Ci sono alcuni brani su cui stiamo lavorando con “mood” differenti tra loro ma legati insieme dall’ambizione di sempre: provare a scrivere e cantare qualcosa che emozioni scalfendo la superficie per andare a toccare le corde interne di chi ascolta.

Cambiando la lingua è cambiato il tuo modo di scrivere le canzoni? Hai avuto difficoltà? il sound musicale sarà lo stesso o cambierà anche la produzione dei brani?

Credo che la pratica sia sempre la migliore compagna quando ci si cimenta in un nuovo approccio e, similmente, la ricerca dell’intenzione musicale più adatta sia un terreno di ricerca vasto; penso che il confronto con amici e colleghi sia assolutamente un plus nella definizione e nella scoperta del proprio sound e quindi anche le “difficoltà” possono essere lette sotto una luce diversa.

I prossimi brani si muoveranno in territori musicali che vedranno insieme canzoni intime a canzoni più estroverse, fino a momenti di grande impatto sonoro.

Se dovessi descrivere la tua musica a qualcuno che non Tia Airoldi, come la descriveresti?

La musicalità di ciascuno non si può imbrigliare in etichette anche se spesso ci troviamo a considerarci come gli ascoltatori di un certo genere.

Più vicina alla verità c’è la considerazione che ognuno di noi è spinto a trovare affinità con certe sonorità e certi modi di fare musica che possono variare a seconda del momento e del bisogno: nel mio caso posso dire che sono particolarmente affascinato dagli aspetti di profondità, calore e luminosità della musica che sento.

Mi piace lasciarmi trasportare dalla musica sia che si tratti di un ascolto contemplativo sia di un brano ballabile e scatenato.
 Musicalmente parlando il mio motto è “near your heart” – “vicino al tuo cuore”.

Quali sono gli artisti che hanno più influenzato il tuo percorso artistico e perché?

Grazie agli amici che mi hanno passato un quantità di dischi, la mia ricerca musicale ha preso spesso il via da ascolti esterofili e spesso fuori dal contesto mainstream: la scena del cantautorato folk americano contemporaneo (Bright Eyes, Sufjan Stevens, Eliott Smith, Devendra Bahart, Timber Timbre), l’alt-rock inglese (Smiths, Blur, Radiohead), il punk-rock e le sue divagazioni underground, l’alternative rock americano (Spoon), i grandi classici del passato (Johnny Cash, Lou Reed, Nick Drake, Lee Hazlewood).

E poi il rapporto con la musica che è spesso andato di pari passo con l’immagine, in un connubio che è un enorme veicolo di musicalità: mi riferisco in particolare alle colonne sonore dei film e a quelle alcuni videogames di cui ricordo splendidi paesaggi sonori immersivi (Keith Zizza).

Cosa cambia nel comporre una canzone per un album o per fare da colonna sonora a un film o uno spot?

Come detto, il brano in questo caso nasce in maniera indipendente dallo spot.
Sebbene non sia strettamente il mio campo quello di scrivere colonne sonore e quindi non abbia molta esperienza, spesso confrontandomi con Fabrizio abbiamo parlato della capacità comunicativa della musica.

Prendo in prestito una sua definizione che trovo calzante: quando scrivi una colonna sonora (o in generale una musica) è un po’ come iniziare a fare sognare l’ascoltatore: lo conduci in una sorta di teatro interiore dove vanno in scena diversi momenti (tensione, dubbio, sollievo, gioia…) e l’opera del compositore è quella di interpretare ed evidenziare questi stati accompagnando la storia fornita dalle immagini.

Oltre a essere un cantate sei anche un un professionista della musicoterapia, come questo influisce sulla tua carriera artistica?

Al momento sono uno studente alla scuola di musicoterapia di Assisi.
Ho intrapreso questo percorso di formazione (lungo e di grande spessore) durante l’esperienza lavorativa nella pubblica istruzione come insegnante di sostegno nella scuola primaria, a stretto contatto con la disabilità.
In particolare ho avuto il privilegio di aver fatto la conoscenza di un bambino molto speciale che posso dire essere stato il primo motore per pensare la musica come mezzo a servizio dell’altro.

Questa consapevolezza si è estesa anche negli aspetti paralleli del mio fare musica e i “compartimenti” (la composizione, la didattica, la terapia) non sono nettamente separati ma si amalgamo uno nell’altro.

Quanto è importante per te la dimensione dal vivo? Hai in progetto un tour per promuovere il tuo prossimo album?

Musica è relazione con le persone e personalmente credo che la dimensione dal vivo sia l’antidoto per non rimanere indifferenti alle proprie emozioni.

Le emozioni sono la nostra riserva di umanità anche se qualche volta spaventano.
Quante volte però ci è capitato di arrivare ad un concerto con la testa piena di pensieri e di uscirne alleggeriti?
 Che mi faccia piangere o ballare, la musica in condivisione (sia da musicista sia da ascoltatore) è semplicemente insostituibile.

Un concerto è fatto dalle persone sul palco, dai tecnici che lo rendono possibile e da quelle giù dal palco, in una vibrazione condivisa.
La situazione odierna non permette di pianificare a grande distanza gli eventi ma la musica viva non smetterà.

Grazie a Tia Airoldi per la disponibilità