Carmen Consoli Amuri Luci recensione
Ho conosciuto musicalmente Carmen Consoli da adolescente. Penso di avere consumato la traccia di Blunotte in quell’album che ha segnato una generazione, Confusa e felice. E così ripercorro tutti quegli anni dal 1997 ad oggi e vedo la “cantantessa” che ha accompagnato la mia vita.
E quei temi così intimi e quella voce sussurrata adesso si trasformano in un grido collettivo, un affondare nelle radici più profonde e costruire un suono che ci accomuna tutti.
Ho capito che la lingua non è solo un mezzo: è una casa, un carattere, una postura del cuore. Non è un’operazione pensata per piacere agli algoritmi: Amuri Luci inaugura una trilogia che chiede tempo, attenzione e disponibilità. Più che un “prodotto”, è un rito laico che usa la lingua madre per interrogare l’oggi e riportare l’ascolto a un gesto di comunità. La Sicilia evocata non è cartolina: è crocevia di civiltà, dove arabo, latino e greco si intrecciano al dialetto per dire memoria, verità e resistenza.
Il senso del titolo – amore e luce come forze che illuminano, consolano e denunciano – orienta l’intero lavoro. La title track dedicata a Giovanni Impastato ne concentra l’asse etico ed emotivo, trasformando il lutto in una chiamata al coraggio. È cantautorato civile senza proclami, con una dolcezza che brucia.
La scelta del siciliano non è un vezzo identitario: è lo strumento più onesto per chi quella lingua abita.
Per questo l’album è radicalmente contemporaneo: con quella lingua si può parlare di guerra e migrazioni, di sopraffazioni e cure, e allo stesso tempo far entrare i classici dentro il presente senza accademia. La canzone, qui, diventa una stanza abitata: la parola è corpo, relazione, responsabilità.
L’etica della memoria (Buttitta e la pietà attiva)
C’è una linea che attraversa il disco come una corrente calda: la memoria che non predica, ma agisce. Le parole di Ignazio Buttitta rientrano come un invito a guardare in faccia il dolore senza trasformarlo in retorica. In Mamma Tedesca la guerra non è un quadro appeso alla parete: è un respiro sospeso, una lettera che non potrà mai essere spedita e che pure chiede risposta. La musica si fa pudore, lascia spazio al silenzio quando serve, e proprio in quel silenzio illumina l’ascoltatore. Qui l’amore smette di essere sentimento generico e diventa responsabilità: ricordare non è una posa, è un mestiere quotidiano. Più avanti, in Parru cu tia, il testo di Buttitta diventa gesto: la parola si fa azione, e l’intervento parlato di Jovanotti non è un effetto ma un’accensione che rilancia l’urgenza del brano. Sono due modi diversi di dire responsabilità: compassione che ascolta, ribellione che agisce.
I miti che parlano (Teocrito, Ovidio e la vulnerabilità)
Un’altra linea entra in dialogo con la prima: quella dei classici. Teocrito e Ovidio non sono citazioni da cornice, ma strumenti per guardare più a fondo. Nei brani che richiamano il mito di Galatea e Polifemo, il racconto rovescia l’aspettativa: il “mostro” non è un mostro, è un innamorato vulnerabile; l’epica non irrompe per far rumore, ma per svelare delicatezza e ferite. È così che il mito diventa utile: non ci mette in soggezione, ci mette in relazione. Lo ascolti e ti accorgi che sta parlando di adesso — della goffaggine del desiderio, della sproporzione tra ciò che sentiamo e ciò che riusciamo a dire.
Storia che precipita nel presente (la ferita mediterranea)
C’è poi il Mediterraneo, non come cartolina ma come luogo vivo, contraddittorio, pieno di partenze e ritorni. La terra di Hamdis è il punto in cui la ricerca sulla storia diventa cronaca: la poesia dell’esilio antico incontra le rotte spezzate di oggi, e la voce ospite allarga la scena senza rubarla. Non si tratta di “attualizzare” a forza: qui la Storia entra con la sua brutalità e costringe la canzone a stare dritta, a sostenere il peso delle parole. Ne esce un ponte: non nostalgico, non moralistico, semplicemente necessario. Penso sia il punto più alto del disco.
Ventu strogghi ’u chiantu, stutulu stu ’nfernu e fai chioviri simenti di paci.
Vento sciogli questo pianto, spegni questo inferno e fai piovere sentimenti di pace.
Il privato come specchio (ironia, maschere, piccole verità)
La terza linea è domestica e, proprio per questo, politica. In brani che sembrano quasi teatrini del quotidiano, l’ironia smaschera le irresponsabilità minute, le nostre goffaggini e autoassoluzioni. È il micro che rivela il macro: tra gelosie, autoinganni e desideri stonati capiamo come il carattere individuale produca costume, e come il costume finisca per rientrarci in casa. La scrittura resta precisa, mai compiaciuta: non punta il dito, ma ci mette davanti allo specchio. Nel privato che smaschera il pubblico arrivano ritratti taglienti.
3 Oru 3 Oru sembra un teatrino domestico e invece è una radiografia dell’irresponsabilità, dove il ritmo trascina mentre il testo toglie le maschere. Unni t’ha fattu ’a stati punta l’obiettivo sugli opportunismi: chi scappa al primo temporale e torna quando il cielo è sereno. Comu veni, veni mette a processo la parola facile del presente: non è una morale, è un’igiene del linguaggio — pensare prima di parlare, scegliere prima di sparare su tutto.
Lo si avverte anche in Qual sete voi, dove il dialogo con il tenore Leonardo Sgroi rimette in scena Nina da Messina e Dante da Maiano: la prima voce femminile in volgare rientra come specchio delle identità che si cercano, e la canzone tiene insieme sala da concerto e piazza senza forzature. Il risultato è un ponte credibile tra camera e strada.
Come suona (rito e modernità, senza fronzoli)
Carmen firma anche la produzione e costruisce un paesaggio in cui strumenti della tradizione e timbri contemporanei convivono con naturalezza. L’equilibrio tra rito arcaico e presente pop è millimetrico: arrangiamenti ariosi ma rigorosi, dinamiche sempre al servizio della parola, nessun orpello. È un suono che accompagna, non invade; che scolpisce il senso, non lo veste. Quando entrano gli ospiti, allargano davvero lo sguardo: non cameo da copertina, ma dialoghi che spostano l’aria del brano.
Perché ascoltarlo (senza slogan)
Perché Amuri Luci ti chiede di restare dentro le parole finché diventano gesti. Perché usa la lingua per includere, non per separare. Perché riattiva storia e mito come se fossero notizie di oggi, senza mai cedere alla semplificazione. Perché tiene insieme la tenerezza e la ferita, l’intimità e il coro. Ho iniziato questo ascolto con la malinconia degli anni ’90 e l’ho chiuso con la certezza che la canzone, quando è pensata come spazio comune, può ancora farci comunità. Non è un disco da consumare: è un disco da abitare. E quando spegni, ti accorgi che una luce — piccola ma testarda — è rimasta accesa.
Brani migliori: La terra di Hamdis, Amuri Luci, Galàteia, Parru cu tia
Voto: Nove ⭐⭐⭐⭐⭐⭐⭐⭐⭐
amuri luci – Tracklist completa:
- AMURI LUCI (Testo: C. Consoli / Musica: C. Consoli e G. Calà)
- UNNI T’HA FATTU ‘A STATI (Testo e Musica: C. Consoli)
- LA TERRA DI HAMDIS (feat. Mahmood) (Testo: C. Consoli / Musica: C. Consoli e M. Roccaforte)
- MAMMA TEDESCA (Testo: I. Buttitta / Musica: C. Consoli)
- 3 ORU 3 ORU (Testo e Musica: C. Consoli)
- BONSAI #3 (Testo: Ovidio / Musica: C. Consoli)
- GALATEIA (Testo: Teocrito / Musica: C. Consoli)
- PARRU CU TIA (feat. Jovanotti) (Testo: I. Buttitta / Testo parlato: Jovanotti/ Musica: C. Consoli)
- COMU VENI VENI (Testo e Musica: C. Consoli)
- QUAL SETE VOI (feat. Leonardo Sgroi) (Testo: Nina da Messina e Dante da Maiano / Musica: C. Consoli)
- NIMICI DI L’ARMA MIA (Testo: G. Casella / Musica: C. Consoli)











