21 Marzo 2021
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21 Marzo 2021

Testo & ConTesto: Laura Pausini Io sì. Il Prof di latino analizza il testo della canzone italiana candidata agli Oscar 2021

Una canzone semplice al servizio del film. Poche parole che parlano di "attenzione", la vera essenza dell'amore. Ce lo spiega il Prof di latino.

Laura Pausini Io si testo
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Laura Pausini Io sì Testo & ConTesto  La prima volta che ho ascoltato Io sì di Laura Pausini è stato di notte, e confesso di essermi lasciato accarezzare dalla canzone pur senza capirne il perché. Non ho letto il testo in quella circostanza, ho registrato la sensazione e l’ho ascritta a quella notte.

Le canzoni sono questo per me: barlumi di coscienza nel nero delle mie solitudini insonni. Ho sempre vissuto così la musica sin dai primi momenti in cui l’ho incontrata. Persino da adolescente soffrivo della sindrome di riempire il tempo. Ero instancabile e proteiforme; eppure, già allora, provavo quella frustrazione che assale in coda a un giorno fuggito quando pensi di non aver fatto abbastanza, di non aver fatto tutto. Deluso, mi rifugiavo nelle canzoni. Le trovavo l’approdo necessario della mia inquietudine operosa. Ascoltavo Le rondini di Lucio Dalla e mi sentivo sui tetti delle città; ascoltavo Toffee di Vasco e mi convincevo che, anche se non si batteva chiodo, un qualche amore era possibile e mi stava aspettando.

Ho ascoltato Io sì due volte, quella notte: una prima per lasciarmi disorientare, una seconda per accettare di essere disorientato. Due volte, sufficienti per conservare un carezzevole turbamento.

Pochissime parole, elementari. Frequenti iterazioni a sancire, quasi, un univoco e immodificabile sentimento. Davvero poco in quattro minuti di canzone.

E più me lo ripetevo (“Troppo poco, prof”, come se la parte di me deformata professionalmente non volesse cedere), più mi congiungevo idealmente a quella elementarità di fondo. Aderivo all’emozione nuda, forte proprio perché scevra da ogni sovrastruttura: sentivo in quelle parole la rudimentale verità degli affetti che non hanno bisogno di dire, di ingombrare. Sentivo tutto sufficiente. Una parola in più avrebbe sottratto, non aggiunto.

Negli scorsi giorni ho letto la notizia della candidatura della canzone agli Oscar e, da italiano, ho goduto del fatto che, per la prima volta, a uno dei premi internazionali più prestigiosi avrebbe concorso un pezzo non solo scritto da italiani, ma scritto in italiano. Cantato nella nostra lingua.

Allora mi sono sentito in dovere di riprendere in mano il testo e di capirci di più. Ho dedicato un’altra delle mie notti a guardare La vita davanti a sé, il film diretto da Edoardo Ponti con la partecipazione speciale di Sofia Loren, film di cui Io sì è canzone di chiusura.

L’ho fatto perché, in un mondo sempre più diretto alla compenetrazione dei linguaggi artistici, trovo culturalmente improprio valutare una canzone concepita come parte di un racconto cinevisivo indipendentemente dal prodotto al cui servizio è stata pensata.

Una simile canzone vive del raccordo con il film. Quando Niccolò Agliardi e Laura Pausini hanno pensato a questo testo sulla musica di Diane Warren, hanno lavorato per uno scopo: mettere un punto al film, senza replicare né saturare il messaggio della narrazione preesistente; regalarci un’ultima visuale perché ripercorressimo a ritroso i momenti vissuti nell’immedesimazione e afferrassimo un significato universale.

Non possiamo prescindere da questo, se vogliamo comprendere l’operazione. Pertanto, non vi aspettate dal Prof, stavolta, minuziose analisi del tessuto retorico o valutazioni sul livello di selezione lessicale. Seguite la strada di interpretazione che vi propongo, attraverso significati lineari e quasi primitivi, che rimbalzano dal film alla canzone e dalla canzone al film.

LAURA PAUSINI IO SÌ TESTO

Se leggiamo il testo (qui) o lo ascoltiamo scivolare con le sue ampiezze metriche sul dettato melodico, pensiamo a quello che avremmo voluto sentirci dire dagli affetti stabili della nostra vita, nei momenti in cui la nostra ricerca oltre il perimetro rassicurante del mondo conosciuto ha incontrato una caduta.

Troppe volte diamo per scontate le persone che ci amano senza rumore, che assistono alla nostra storia lasciandola correre sotto i loro occhi e rispettandone il libero movimento. Gli affetti grandi sembrano lì da sempre. Ci guardano di soppiatto e dichiarano, nel loro silenzio rispettoso ma vigile, di esserci per sempre.

“Sto qui” ripete insistentemente l’io lirico. Starò qui a qualunque costo, come pilastro di appoggio per il dolore inevitabile che incontrerai, ogni volta che riterrai di doverti poggiare. Starò qui quando sceglierai le tue strade, anche quelle impossibili, quando le fallirai e fuggirai via, o quando le chiuderai alzando muri.

Starò qui perché amare non è sostituirsi, è guardare chi amiamo mentre costruisce il proprio destino e lo spazio della propria libertà.

Starò qui al principio della tua solitudine: quando nessuno ti crederà, quando nessuno ti vedrà. Starò un passo indietro ai tuoi sogni che guardano davanti a sé, perché la vita è davanti a sé, con la sua realtà impietosa e il suo tenero incanto.

Colta nella sua autonomia, Io sì canta una delle sfumature più difficili dell’amore: l’attenzione. L’attenzione è il vero indice di misurazione di ogni forma di bene: amiamo se sappiamo ‘attendere’, se sappiamo trovarci al nostro posto quando è il momento, non prima né dopo.

Se guardiamo il film La vita davanti a sé e fruiamo della canzone nella sua precisa collocazione, invece, il valore del testo appare potenziato.

La pellicola di Ponti è la storia di un incontro, inizialmente forzato, tra Momò, un dodicenne di origini senegalesi con una tragedia familiare alle spalle, e Madame Rosa, un’ex prostituta sopravvissuta ad Auschwitz.

Per necessità economiche, Madame Rosa ha trasformato la sua casa in un rifugio per bambini ‘parcheggiati’ da donne dedite alla vita di strada; su richiesta del dottor Cohen, accoglie ora il piccolo Momò, resistente all’amore e presto attratto da strade devianti. La donna si prende cura di lui, senza smancerie affettive e senza esercitare un controllo ossessivo.

Molte recensioni del web rimproverano al film l’assenza di picchi emozionali, ma vi confesso che io, da non cinefilo, ho apprezzato proprio questo. Madame Rosa conosce le brutture della vita, ha alle spalle le sofferenze del marciapiede e la tragedia del lager; vive un’esistenza ruvida e necessitata, e guarda Momò vivere e sbagliare.

A tratti sembra che neppure lo guardi, a tratti ti chiedi se faccia finta di non vedere. Ma tra i due nasce un legame che origina dall’analoga esperienza del segno meno dell’esistenza, dall’aver dovuto prematuramente conoscere l’ineluttabilità del dolore.

Lei ha già vissuto; lui deve ancora vivere, deve scoprire la sua coscienza e le sue possibilità. Non c’è retorica nel rapporto tra i due, non c’è stereotipia neppure nel modo in cui l’esperienza di Auschwitz è richiamata. Tutto corre naturale, come è naturale la vita che non ammette appelli.

Forse è questa elementarità che tutti chiamano “poco pathos”. A me, invece, questa asciuttezza pare perfettamente completata e sintetizzata dalla canzone, che dichiara l’amore che si dona restando indietro.

Sembra quasi che Madame Rosa permetta a Momò di percorrere “la vita davanti a sé” e lo motivi per sottrazione di gesti, non per aggiunta: lasciandolo fare, gli dichiara la sua presenza e quella fiducia che, probabilmente, a lei non è stata a suo tempo riservata.

Madame Rosa vede Momò sfidare il destino, esperire il male necessario, e si limita a dirgli “Sto qui”.

Forse in lui rivede anche sé stessa e le sue strade sbagliate; forse attraverso lui ripensa a quanto avrebbe avuto bisogno che qualcuno avesse ‘atteso’ a lei silenziosamente, quando “essere invisibile” è stato “peggio che non vivere”. E con la sua spoglia essenzialità canta idealmente a Momò le parole di Io sì, anche quando non c’è più futuro, rimanendo presente nell’assenza.

Ecco il motivo delle poche parole: parole primitive, strutture sintattiche binarie, verbi che rimandano alle condizioni basilari dell’esistere (sentire, vedere, credere, stare). È troppo semplice e primigenia la verità dell’amore che Madame Rosa professa: “Se mi vuoi, sono qui. Nessuno ti vede, io sì”.

Con questa discrezione Madame Rosa è entrata nella vita di Momò e ne ha invertito le coordinate. E vi dirò di più: alla fine, quando l’epilogo che non devo spoilerare cambia le gerarchie, quelle stesse parole potrebbero anche essere cantate da Momò a Madame Rosa ed essere ugualmente vere. In bocca al piccolo senegalese sarebbero ugualmente possibili.

Ecco che l’amore si fa unione: qualcosa che va e ritorna, da una direzione all’altra per naturale necessità; qualcosa che inverte continuamente i ruoli e rende l’attenzione dovuta.

La loro storia parla di dolori che si incontrano per caso, che si riconoscono, che si parlano nel silenzio, che si compensano. E quando si fondono, si perdonano.

SCRUTINIO (E QUALCHE NOTA DI ConTESTO)

Prima di scrutinare, una piccola nota polemica. ConTESTabile la reazione dei più alla nomination agli Oscar. Mi ha un po’ intristito che la notizia non sia stata accolta con entusiasmo ‘culturale’.

Trascurando la morbosità dei webeti impegnati a giudicare in diretta la reazione festante della cantante da cui avrebbero preteso una compostezza più apollinea, mi sarei aspettato invece, anche dai più incalliti mortificatori della ragazza di Solarolo, almeno una riflessione sull’importanza del momento.

D’altro canto, non è la Pausini interprete (qualora vi stesse troppo antipatica per gioire con lei) a competere per gli Oscar, che sono, ripetiamolo per chi si fosse distratto, il più insigne premio nel settore dell’industria cinematografica. Sono la canzone e chi l’ha scritta ad ambire al riconoscimento (se non fosse che la Pausini è anche autrice, ahivoi!).

Nessuna apologia della Pausini in questo articolo, o della sua carriera, che non ha bisogno certo del mio tributo. Solo un’analisi della canzone, analisi concepita nell’obbligo di integrare il prodotto musicale con la narrazione cinematografica cui appartiene.

Lo specifico per prevenire possibili fraintendimenti: non sto negando la semplicità costitutiva del pezzo, sto affermando che essa è una scelta efficace per guidare lo spettatore e orientare la definitiva interpretazione del film.

Io ho apprezzato la sapienza dimostrata dagli autori, anche attraverso una scelta linguistica per sottrazione, nel rappresentare questo sentimento che non chiede, che protegge senza schermare, che sta alle spalle e non invade il cammino. Un affetto cui tornare sempre per trovare il coraggio di perdonarsi.

Forse anche grazie alla mia esperienza di professore, ho sempre immaginato così l’amore. Ho capito che non va mai negato a chi amiamo il potere di scegliere il proprio destino, tarpando la libertà con l’ossessione del controllo.

Ho capito che possiamo stare a guardare con fiducia accorta, che nell’essere spettatori appassionati di una vita che si crea dimostriamo la nostra abnegazione.

Ho imparato che si può consegnare e lasciar andare pur senza mai perdere l’attenzione. Osservare la schiena di chi amiamo mentre compie liberamente il suo cammino. Avere la premura della seconda fila, la responsabilità nascosta del sostegno.“Se mi vuoi, sono qui”.