8 Luglio 2020
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8 Luglio 2020

Da Spotify a Youtube: chi paga, e quanto, gli artisti nello streaming?

Matteo Mori ci parla del problema legato ai pagamenti dei diritti degli artisti indipendenti da parte dei servizi streaming.

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Da Spotify a Youtube Music, chi è che paga, e quanto, gli artisti indipendenti nell’era dello streaming? Se il primo dà la possibilità di caricare il materiale solo dai suoi creatori, nel secondo ci sono evidenti problemi di copyright infranto.

Spotify è un elemento negativo, soprattutto per la scena locale underground. Non è un’opinione particolarmente controversa. Ormai credo si sia già diffuso come pensiero generale, sia dagli artisti che spesso dagli utenti della piattaforma stessa.

Al colosso dello streaming questo non importa, e la presa di posizione contro l’aumento dei guadagni voluto dai compositori ne è la prova. Di recente la compagnia ha lanciato l’iniziativa “Artist Fundraising Pick“, a favore degli artisti colpiti dalla crisi Covid-19. Nel proprio profilo, gli artisti possono inserire un pulsante di donazione. Ovviamente tutto ciò è stato accolto con varie critiche, e nemmeno All Music Italia si è tirato indietro. Quel pulsante è un’ammissione tacita che Spotify stesso non stia pagando abbastanza gli artisti per sopravvivere.

Anche se Spotify si sta avvicinando ai 300 milioni di utenti mensili attivi, certamente non è l’unico: Apple Music, Tidal e anche Soundcloud non compensano in modo equo gli artisti. Ormai la musica viene vista come un prodotto dal basso valore, un accessorio intercambiabile usa e getta.

Ma chi di voi, invece, non ha mai ascoltato musica su Youtube? La piattaforma, di proprietà di Google, conta due miliardi di utenti attivi. Certo, non tutti la usano esclusivamente per ascoltare musica, ma chi non l’ha fatto almeno una volta?

Il servizio streaming YouTube Music, con oltre 20 milioni di abbonati, si basa su un abbonamento (incluso in YouTube Premium) simile a Spotify. Solo una piccola percentuale delle entrate generate da YouTube Music proviene da utenti abbonati; la presenza di annunci è il vero produttore di YouTube Music, ed è qui che iniziano i problemi. A differenza di Spotify, YouTube Music è una piattaforma che consente agli utenti di caricare i contenuti. Facendo così, il servizio è diventato un raggruppamento di persone che monetizzano contenuti senza aver alcun diritto legale per farlo. YouTube Music ha un algoritmo che prova a rilevare le violazioni di copyright più ovvie, ma con i rilasci più di nicchia non vi è nessun controllo.

Prendiamo come esempio il settore della musica elettronica, dominato perlopiù da piccole etichette dalla vita breve. Dietro a queste realtà non ci sono team con risorse adatte al controllo dell’utilizzo del loro catalogo online. Anche se ci spostiamo su etichette attive, una parte significativa dei rilasci è effettivamente fuori dal discorso “royalties e licenze”, e il problema è ancora più grande per la musica pre-streaming.

Certo, per l’ascoltatore è bellissimo avere accesso a un catalogo vastissimo di tracce di nicchia, ma molti degli artisti che le hanno realizzate non vengono pagati. E possiamo chiedere a dei produttori pre-era dello streaming di capirci qualcosa del complesso sistema di monitoraggio odierno?

Ma anche se ci fosse un buon sistema di monitoraggio per i diritti, YouTube Music paga generalmente un tasso di royalty persino inferiore a Spotify. Anche se le tariffe variano e non sono rese pubbliche dalle stesse piattaforme di streaming, Spotify paga circa 0,003€ a stream. YouTube Music paga 0,0016€ per gli stream nei canali degli artisti. Ma per la musica su altri canali identificata tramite il Content ID, la tariffa scende a 0.00087€. Per quanto riguarda la musica il cui copyright non è stato identificato, possiamo presumere che non venga proprio pagata.

Se tutto questo è considerato più accettabile di Spotify, è solo perché probabilmente YouTube Music è diventata una piattaforma gratuita radicata nei nostri principali mezzi di consumo digitali, ancor prima che si sviluppasse un discorso sulla retribuzione equa degli artisti. Per l’ascoltatore medio, YouTube Music è in circolazione da molto tempo e funziona, quindi non c’è bisogno di ulteriori discussioni. In molti casi è l’unico posto in cui alcuni brani musicali possono essere facilmente ascoltati. In confronto, Spotify è qualcosa di “nuovo”, che lo rende molto più facile da usare come capro espiatorio.

Entrambe le società fanno parte di un sistema ingiusto, in cui artisti ed etichette ricevono pochissimi incassi, nonostante producano miliardi di euro di entrate.

YouTube Music merita lo stesso giudizio di Spotify, anche perché gestito da Google. La discussione sulle entrate degli artisti è cosa buona e giusta, ma non dobbiamo concentrarsi solo su Spotify. Ci sono una moltitudine di piattaforme che meritano un discorso simile.

(S)cambio generazionale è la rubrica in cui il 19enne Matteo Mori racconta cosa significhi essere nati in un mondo dove la musica era già agli stadi finali nel suo formato fisico e più vicina alla digitalizzazione.