26 Agosto 2020
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26 Agosto 2020

Daniel Ek, CEO di Spotify: rilasciare un album ogni tre anni funziona ancora?

Secondo il CEO di Spotify, Daniel Ek, pubblicare un album ogni tre anni porta a più danni che benefici per il proprio pubblico. E' così?

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Lo scorso mese, musically.com ha avuto l’opportunità di intervistare il CEO di Spotify, Daniel Ek. Tra le varie dichiarazioni, ce n’è stata una che ha fatto particolarmente infuriare una categoria di artisti:

Alcuni artisti che in passato avevano fatto bene, potrebbero non ottenere gli stessi risultati in futuro.

Non sarà possibile registrare musica una volta ogni tre o quattro anni, non possono pensare che basterà – ha detto il CEO di SpotifyGli artisti che oggi hanno successo si sono resi conto che è fondamentale creare un legame continuo con il proprio pubblico.

Si tratta di pubblicare materiale, raccontare una storia attorno all’album e continuare a dialogare con i propri fan.

Tra i tanti che non hanno digerito questa dichiarazione c’è stato Mike Mills, bassista dei R.E.M.

Musica = prodotto, e dev’essere sfornato regolarmente, dice il miliardario Daniel Ek. Vai a farti f-ttere” ha twittato Mills

Ora, noi abbiamo gli album sostanzialmente per l’esistenza dei giradischi e dei 33 giri. Le etichette, gli artisti e i fan stesso si sono abituati a questo modello per decenni, e non cambiò di molto quando vennero messi in commercio i CD, che potevano essere manufatti a basso costo e potevano contenere più canzoni.

Perlopiù, quelli maggiormente contrari a Spotify provengono dalla scena indipendente. Le etichette indipendenti basano ancora molte delle loro uscite sul vinile, e il vinile è molto più impegnativo per la stampa rispetto al CD. Stampare su vinile è mille volte più costoso e logisticamente più difficile.

In America, per esempio, c’è solo un certo numero di macchinari che stampano vinili e nessuno ne ha creato dei nuovi in decenni.

Quindi, gli album devono essere mandati mesi prima per far in modo di averli disponibili fisicamente durante la settimana del rilascio. Quella lista d’attesa è diventata progressivamente sempre più lunga, con il crescente feeling nostalgico che ha portato anche le major a riproporre le proprie uscite su vinile.

Semplicemente non è possibile per gli artisti, che hanno a che fare con delle etichette indipendenti, scrivere e rilasciare costantemente musica perché l’intero mercato gira attorno al vinile.

Alcuni contratti discografici hanno addirittura dei limiti su quanti album si possono rilasciare in un determinato periodo di tempo. Se si rilascia un progetto in più in quella frazione di tempo, potrebbe non venir contato per la fine del proprio contratto, che libera dagli accordi discografici.

L’altro lato è la musica rap. Il rap ha trovato la sua casa nello streaming, principalmente perché il genere ha volontariamente cambiato il suo rapporto con il formato dell’album durante l’epoca del CD e dell’MP3.

I CD erano economici da produrre, quindi molti artisti rilasciavano musica costantemente. Loro hanno creato un “legame continuo” ben prima dello streaming, in più gli artisti rap non si sono mai sposati al vinile come cuore del proprio business. I loro statement giravano intorno ai mixtape, album non ufficiali con materiale inedito al di fuori dei contratti discografici, usati soprattutto da artisti sotto major.

Quindi, quello che Daniel Ek sta dicendo agli artisti legati alle etichette indipendenti, che preferiscono quel modello, “perché non potete essere più simili al rap?

Effettivamente credo che il mondo indipendente non farebbe altro che giovarne dal porsi una domanda del genere. “Un album da 45 minuti ogni tre anni” non è un comando dato dall’alto dei Cieli, è un vincolo che non è né più né meno arbitrario da ciò che sta proponendo Ek. Potrebbe essere più arbitrario a questo punto dato che si basa su convenzioni di promozione e distribuzione che non esistono più.

Non penso che i modelli di business potranno salvare la musica indipendente, ma credo che sia utile, per far avvenir un cambiamento, porsi dei dubbi sui quelli vecchi ai quali siamo abituati, così come ce li poniamo su quelli nuovi sui quali siamo tanto scettici.

 

(S)cambio generazionale è la rubrica in cui il 19enne Matteo Mori racconta cosa significhi essere nati in un mondo dove la musica era già agli stadi finali nel suo formato fisico e più vicina alla digitalizzazione.